Gli studi
Il primo studio risale al 1904: il sacerdote Giovanni Baserga descrisse la capsella di Brivio insieme con altre ritrovate nell’area brianzola, ipotizzando che l’opera fosse databile intorno al V-VI secolo.
Nel 1906 se ne occupò specificamente Plilippe Lauer, che confermò la datazione, e poi Henri Leclerq, per il quale poteva trattarsi di un lavoro della fine del secolo V. Pur con oscillazioni nella datazione e riferimenti a diverse aree culturali, la capsella fu considerata dunque da tutti gli studiosi, allora e in seguito, come ben precedente all’arte romanica del secolo XI.
Era divenuta perciò un oggetto di grande interesse, perché si trattava di uno dei primi reliquiari conosciuti del mondo paleocristiano, e per di più istoriato con scene bibliche. Per questo motivo fu segno di diversi studi, come quello di H. H. Arnason sugli argenti nord italici e gallici nel 1938, quello di Clara Bozzi del 1967 sulla capsella e la diffusione del Cristianesimo, lo studio di H. Buschhausen nel 1971 sui cofanetti romani e cristiani, fino al lavoro di analisi iconografica di Galit Noga-Banai pubblicato nel 2008 a Oxford.
Il disegno corsivo e popolare delle raffigurazioni, fresche e vivaci, ha fatto supporre che la capsella sia di produzione provinciale, senza escludere contatti con realtà anche lontane. Si è pensato a una corrente africana, diffusa nell’Adriatico fino a Grado, ma probabilmente anche verso la zona di Milano, che aveva intensi scambi con la costa africana e con l’area venetica. Altri studiosi hanno ipotizzato un’officina siriaca, oppure l’influenza di qualche modello orientale. Arnason ha prospettato una origine gallica-norditalica, anche per le scelte narrative simili di brani scultorei provenzali.
Le comparazioni conducono naturalmente anche ad oscillazioni di datazione: lo stile piuttosto rigido sembra rinviare alla scultura dell’età di Teodosio, come se si trattasse di una bottega nord italica periferica, che riprende modi anticheggianti. In tal caso la capsella risalirebbe alla prima metà del secolo V. Resterebbe però da scoprire come, in un momento successivo, sia stata collocata nella chiesa di Brivio.
Nell’ambito romano esistevano numerosi tipi di capsella, per riporvi qualche raro oggetto o per unguenti preziosi. Spesso la capsella era anche un dono nuziale, e in tal modo venne interpretata quella di Brivio quando venne esposta a Milano nel 1895. In epoca paleocristiana esistevano vari tipi di teche, soprattutto eucaristiche, usate per il ministero dei diaconi oppure appese sopra i cibori degli altari.
Al secolo IV risalgono vasi preziosi per le reliquie dei santi e dei martiri, costituite a volte solo da ceneri o piccoli pezzi di stoffa, come infatti si trovavano nella capsella di Brivio. Lo stesso S. Ambrogio fece realizzare una splendida capsella per il martire Nazaro. Non soltanto i primi gruppi cristiani ebbero simili cofanetti nelle loro chiese in posizione visibile, ma anche alti ecclesiastici e dignitari facevano produrre capselle personali, talvolta recuperando oggetti pagani.
È probabile che all’inizio i reliquiari venissero collocati sotto l’altare in piccole confessioni, richiamando la visione dei fedeli martirizzati evocata nell’Apocalisse; in seguito vennero inseriti entro altre cassette di marmo o stucco da deporre in un sacrario sigillato a consacrazione dell’altare, costume divenuto generale nel secolo IX.
L’assenza di riferimenti ai martiri lascia qualche dubbio sulla originaria destinazione d’uso della capsella di Brivio, ma in ogni caso sembra che sin dall’antichità sia stata considerata un reliquiario.